Ferzan Ozpetek e quel passato che ti presenta il conto. Rosso Istanbul.

“Rosso Istanbul” è un film del 2017 tratto dall’omonimo libro di Ferzan Ozpetek.

È un film che spalanca gli occhi sul percorso di una persona e su ciò che ha “lasciato in sospeso” perché ha fatto delle scelte. Dunque ciò che lo accoglie conseguentemente a delle scelte. Il passato rimuginato, quello che sta lì a entrare sempre in gioco quando ci si spinge senza sosta in avanti, perche è la vita e la vita va proprio cosi. Il passato che a volte ritorna, quando pensavi di averlo rimosso. Quella specie di tentazione.

Il film narra il ritorno del protagonista nel suo luogo di nascita. Il rosso fa da sfondo, dallo smalto della madre di Denis all’abito di Neval durante la cena a trois, dal giubbotto in pelle di Yousuf alla bandiera che viene inquadrata sullo sfondo mentre il protagonista Orhan e Neval sono seduti su una panchina.

Rosso Istanbul fa venir voglia di prenotare un biglietto e andare a vedere tutti quei colori, tutti quei tramonti e tutta quella vita che scorre al di qua del Bosforo. È un film che narra il sospeso, dunque non lascia che accada ai nostri occhi, evita così di cadere in luoghi comuni, omettendo. Tocca allo spettatore collegare il tutto e, devo dire che non è poi così complicato per questo film, ma è privo di ovvietà. Fulcro di notevoli citazioni è il passato (e l’appartenenza). 

“Se guardi sempre al passato finirai per non vedere il presente” afferma Denis.

Ma per Orhan tornare a Istanbul  (anche solo per lavoro) lo spinge inevitabilmente a ripercorrere i suoi ricordi che pensava di aver rimosso. È inevitabile, si. È inevitabile scontrarsi con ciò che un tempo faceva parte di noi. Soprattutto Orhan è convinto di essere solo nuovamente di passaggio. Il finale è meravigliosamente aperto, mantenendo in tal modo la cifra stilistica del film: il “chissà se…”. Il titolo lo si ritrova persino mell’ultima scena in cui Orhan si tuffa nel Bosforo e l’inquadratura si colora di rosso. Quel rosso che muove tutto, il rosso della passione, della rivolta, del sangue, delle occasioni mancate e di quell’amore non amore. O meglio, l’amore nella sua più totale integrità, senza riduzioni alla fisicità dei corpi. Amore inteso come naturalezza che nasce e scocca come una scintilla, che resta quasi conservato e preservato dalla mano dell’uomo. Non quell’amore di baci e carezze e letti disfatti e clandestinità, tutt’altro. Un amore narrato e mai fatto scadere, un amore trattato con i guanti bianchi, mai a mani nude, seppur clandestino ma “puro”. L’amore fisico, quello carnale, in questo caso appare extradiegetico, lo spettatore non lo vede, ma può percepirlo. Ferzan però ci riserva il diritto di farci pervenire tutte le informazioni necessarie per arrivare a delle nostre conclusioni e l’intento è ben riuscito.

Sebbene il film riporti alcune delle cifre stilistiche tipiche del regista italo turco, come ad esempio le scene con numerosi commensali tipiche da famiglie allargate quali quelle presenti in “Mine vaganti” o “Le fate ignoranti”, o la citazione “la separazione è per chi ama con gli occhi. Chi ama col cuore non si separa mai” che ricorda tanto la nonnina Mina Vagante (“gli amori impossibili non finiscono mai, sono quelli che durano per sempre”), o ancora la colonna sonora piuttosto leggera e a tratti sulla falsa riga sdrammatizzante, pare sia del tutto originale. Più che altro si tratta di un film che evita di cadere nella scontatezza, mantenendo alta la concentrazione dello spettatore – nonostante la linea narrante sia piuttosto opaca ma ricca di risvolti – e lasciando spiragli aperti da riempire con l’immaginazione.

E bravo Ferzan! Voto:7.

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